I fantasmi nel mondo antico

Definizione

Joshua J. Mark
da , tradotto da Alfonso Vincenzo Mauro
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Disponibile in altre lingue: Inglese, Bengalese, Francese, Tedesco, Portoghese, Spagnolo
Roman Skull with Obol in Mouth (by Falconaumanni, CC BY-SA)
Teschio romano con obol in bocca
Falconaumanni (CC BY-SA)

Non v’era per i popoli dell’antichità dubbio una parte dell’individuo (l’anima, nella nostra cultura) sopravvivesse alla morte corporale; quali che fossero le opinioni personali a riguardo, si era indistintamente soliti pervenire a maturità in un contesto culturale che dava a intendere i defunti seguitassero ad esistere sotto altra forma e necessitassero di qualche sorta di sostentamento in un aldilà fortemente approntato da determinati fattori: il tipo di vita che si era condotto nell’al di qua, il trattamento riservato ai resti mortali, se la memoria del trapassato persistesse tra i vivi e se fosse onorevole. I dettagli delle narrazioni inerenti l’aldilà variavano ovviamente per le diverse culture, ma ci pervengono come costanti trasversali la sua esistenza, il suo essere governato da leggi immutabili, e il risiedervi perpetuo delle ombre dei morti — a meno che gli dèi non dessero licenza di tornare nel mondo dei vivi per delle specifiche ragioni; esse potevano includere un rito funerario inappropriato o proprio l’assenza di sepoltura, una morte per annegamento a seguito della quale il cadavere non fosse stato rinvenuto (e dunque non sepolto con i dovuti crismi), l’ancora necessaria risoluzione di qualche faccenda lasciata in sospeso o il tener resoconto fedele degli eventi che avessero portato alla morte, come nel caso di un assassinio da vendicare assicurandone il colpevole alla giustizia. Solo così il morto avrebbe riposato in pace.

La manifestazione e l’esperienza di fenomeni ricondotti ad apparizioni di fantasmi, anche quando di congiunti defunti, erano raramente considerati di buon auspicio: i morti permanevano nel loro mondo, e non ci si attendeva varcassero la soglia verso quello dei viventi; quando un tale evento era tuttavia ritenuto essersi verificato, ciò era segno qualcosa fosse terribilmente fuori posto, tanto che per coloro i quali avevano avuto l’esperienza sovrannaturale era imperativo etico risolvere il problema e placare le ombre riconducendole al luogo loro deputato. Questa fenomenologia era tanto prevalente e trasversale che storie inerenti apparizioni di fantasmi aventi tematiche simili possono essere trovate nelle antiche culture di Mesopotamia, Egitto, Grecia, Roma, Cina, India, così come in alcune regioni mesoamericane, nelle terre dei celti in Irlanda e Scozia. La stessa Bibbia presenta una narrazione dei fantasmi non dissimilmente dai testi latini. Il presente articolo non si ripropone di né potrebbe trattare esaustivamente l’argomento — ciò in considerazione delle innumerevoli opere dedicategli in molte culture, alcune qui citate e altre no; l’intenzione è pertanto di fornire al lettore basilare nozionistica concernente le credenze circa fantasmi e aldilà nel mondo antico.

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I fantasmi in Mesopotamia

Fantasmi solevano apparire ai viventi, si riteneva, affinché emendassero dei torti.

Per la cultura mesopotamica, la morte era irreversibile atto finale della vita; l’oltretomba era indicato da molti nomi, tra i quali Irkalla, “la terra del non ritorno”, reame sotterraneo dove i defunti languiscono nell’oscurità, si nutrono di sporcizia, terriccio, e detriti, e bevono da melmose pozzanghere — nota rappresentazione dell’oltretomba è fornita dal poema Gilgameš, Enkidu e gli inferi. Questa tetra condizione è il destino di tutti i viventi, indipendentemente da che genere di vita questi avessero condotto, e guardiana degli inferi è l’oscura regina Ereškigal. A nessun’ombra era permesso lasciare Irkalla, neanche a una dea, come esemplificato nel poema La discesa di Inanna agli inferi, nel quale la regina celeste di cui al titolo (tra l’altro sorella di Ereškigal) è costretta a trovare un sostituto che prenda il suo posto agli inferi affinché possa riascenderne. Eccezione era tuttavia acconsentita per le ombre cui occorresse completare qualche faccenda nel mondo dei vivi; fantasmi solevano apparire ai viventi, si riteneva, affinché emendassero dei torti

Queen of the Night or Burney's Relief, Mesopotamia
La Regina della Notte o Rilievo Burney, lastra in terracotta ad altorilievo proveniente dalla Mesopotamia
Osama Shukir Muhammed Amin (Copyright)

Queste apparizioni vengono solitamente narrate manifestarsi come una sorta di malattia tra i vivi. Come notato dall’assiriologo Robert D. Biggs, “i morti, specialmente i congiunti trapassati, possono anche tormentare i vivi, massime se il dovere familiare di officiare offerte ai defunti viene negletto. Quelli che con più probabilità sarebbero potuti tornare a disturbare i vivi erano i fantasmi d’individui morte innaturalmente o non adeguatamente sepolti — ad esempio gli annegati o i caduti sul campo di battaglia” (4). I guaritori mesopotamici, noti con i termini di asû e ašipu, facevano ricorso a incantesimi che placassero gli spiriti, ma, prima che il trattamento iniziasse, era al paziente richiesta l’onesta confessione di ogni peccato cui imputare l’evocazione proprio malgrado dei fantasmi dall’oltretomba; tanto che la malattia era in Mesopotamia considerata nient’altro che una manifestazione esteriore della punizione, da parte di dèi o ombre dei trapassati, di qualche peccato di cui ritenuto colpevole il malato fino a prova contraria o avvenuta espiazione.

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Al momento della morte, veniva creata un’entità spirituale, nota in sumerico come gidim, la quale manteneva l’identità personale del defunto e viaggiava verso le terre dei morti — ed è essa a tornare a tormentare i viventi in caso di riti funerari non compiuti propriamente o di atti illegittimi relativi alla morte dell’individuo. Tuttavia, alcune iscrizioni fanno anche cenno di gidim fuggiti con l’inganno dall’Irkalla e molestanti i vivi senza una buona ragione; costoro vengono puniti dal dio del sole Šamaš con la privazione delle offerte funebri, riassegnate a gidim che non hanno nessuno al mondo a ricordarli e a far loro offerte perché continuino ad esistere. Quantunque le fonti ci attestino resoconti di cari defunti facenti ritorno dall’aldilà onde dispensare moniti e consigli, in Mesopotamia la maggior parte dei fantasmi è narrata come presenza indesiderata da ricacciare nella tomba attraverso incantesimi, amuleti, preghiere ed esorcismi.

I fantasmi egiziani

I vivi tormentati dallo spettro dEVOno ritualmente perorare la propria causa appellandosi ad esso stesso, nella speranza di una risposta ragionevole.

Anche nell’antico Egitto il riaffiorare di un fantasma era considerato affare considerevolmente serio. Per gli egiziani, la non-esistenza era concetto intollerabile; e dopo la morte era credenza l’anima viaggi verso la Sala della Verità ond’essere giudicata da Osiride e altri 42 giudici durante la cosiddetta pesatura del cuore (psicostasia): se il cuore/anima risulta più leggero di una piuma, esso è lasciato procedere verso l’aldilà; contrariamente, viene scaraventato a terra, e, divorato da un mostro, cessa di esistere. È più leggero il cuore di colui il quale ha vissuto la vita del giusto, più pesante quello dell’ingiusto. La residenza dei defunti, nota come Campo di giunchi, rispecchiava fedelmente la vita condotta in Egitto: la stessa casa, lo stesso ruscello, lo stesso cane fedele e albero amato — tale che uno spirito non aveva che ragioni esiziali onde ritornare nel mondo dei vivi.

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Egyptian God Osiris
Dio egizio Osiride
A.K. (Copyright)

Nel sistema di credenza di periodo più alto, l’anima è considerata entità unica e indicata come khu — aspetto immortale dell’individuo; in epoche più tarde, si prese a considerare l’anima suddivisa in cinque componenti diverse; due di queste, il ka e il ba (essenza vitale e personalità), si uniscono, dopo la morte, nell’akh — questa l’entità che potrebbe manifestarsi come fantasma. Se non sono stati officiati gli appropriati riti durante la sepoltura, o se qualche peccato è stato commesso dai congiunti prima o dopo la morte dell’individuo, l’akh di quest’ultimo riceve dagli dèi il permesso di tornare nel mondo onde riparare ai torti. I vivi tormentati dallo spettro devono ritualmente perorare la propria causa appellandosi ad esso stesso, nella speranza di una risposta ragionevole; in caso contrario un sacerdote può intervenire e farsi arbitro tra i vivi e i morti. Una fonte ce ne esemplifica un caso nelle traversie di un vedovo inizialmente attribuite a qualche “peccato” o torto commesso nei confronti della moglie tenutole nascosto in vita, e per il quale lei, ora onnisciente nel Campo dei giunchi, lo punisce. Nella lettera del vedovo indirizzata alla moglie defunta, rinvenuta in una tomba databile al Nuovo Regno, il primo implora lo spirito della seconda di dargli tregua, poiché innocente di ogni iniquità:

Di che colpa mi sono macchiato verso di te, che debba trovarmi in questo cattivo stato? Cosa ho fatto contro di te, che tu mi abbia messo la mano addosso benché non abbia colpe verso di te, da quando ero con te come marito fino ad oggi? Cosa ho fatto contro di te che debba nascondere? […] Quando ti ammalasti di questa tua malattia, feci venire un medico primario che ti curasse […] io passai otto mesi senza mangiare e senza bere in maniera umana; […] e piansi moltissimo con gli altri, alla presenza del mio quartiere. Dètti stoffa di lino del sud per bendarti e feci fare molte stoffe, e non permisi che alcunché ti mancasse. E ora, vedi, ho passato fin qui tre anni, e sono seduto e non entro in una casa (di altra donna), benché non sia giusto per uno della mia condizione (sociale). Ora vedi, io l’ho fatto per riguardo a te, ma ora vedi, tu non conosci il bene dal male.
(Nell’orig. cit. da Nardo, D. “Living in Ancient Egypt”. Greenhaven Press, 2004. — Nella trad. cit. da Bresciani, E. “Letteratura e poesia dell’antico Egitto”. Einaudi, Torino, 1969)

Se il corpo era sepolto officiando gli adeguati riti e continua memoria e culto gli erano tributati, era credenza lo spirito del defunto potesse anzi essere di grande beneficio ai viventi, e di custodia lungo tutta una loro vita. Tuttavia, la cultura egiziana statuiva una significativa differenza tra lo “spirito” che risiedeva pacificamente nel Campo di giunchi e il “fantasma” che faceva ritorno sulla terra.

I fantasmi in Grecia e a Roma

Era a Roma antica credenza i fantasmi si manifestassero in modi prevedibili, e generalmente di notte.

Nell’antica Grecia, era credenza l’aldilà consistesse di tre regni distinti. Dopo la morte, nella bocca del cadavere era posta una moneta a pagamento del traghettatore Caronte per l’attraversamento del fiume Stige — un segno di reciproco rispetto, più che di remunerazione, tra l’anima e gli dèi; maggiore il valore nominale dell’obolo, migliore sarebbe stato il posto a sedere nella barca di Caronte. Giunta sull’altra sponda, l’anima occorre scampi al cane trifauce Cerbero onde presentarsi a tre giudici e render conto della vita vissuta. Al termine della testimonianza, durante la seduta in consulta dei giudici, al defunto è offerta una coppa d’acqua del fiume Lete, le acque della dimenticanza, onde obliare la vita terrena. È dunque compito dei giudici assegnare all’anima un luogo d’ultramondana dimora: ai guerrieri caduti in battaglia sono riservati i paradisiaci Campi Elisi; ai giusti in genere, gli altrettanto ameni Prati di asfodelo; agli empi, l’oscurità del Tartaro dove permanere fino all’espiazione delle colpe mondane. Nessuna anima è condannata a eterna dannazione; col tempo, l’anima nel Tartaro può essere elevata ai Prati di Asfodelo. Così come nelle culture d’Egitto e Mesopotamia, non si riteneva i morti possano fare ritorno sulla terra sotto usuali circostanze — eppure lo stesso paradigma base, costante anche circostanze inusuali, fu adottato dalla cultura di Roma antica per la quale anzi la credenza nei fantasmi era anche più profonda di quella degli antichi greci.

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Attic Lekythos
Una lekythos attica
Peter Roan (CC BY-NC)

Nella commedia Mostellaria (“La casa infestata” — letteralmente: “La [comoedia] del piccolo spettro”, lat. *mo(n)stellum, dim. di monstrum), il commediografo romano Plauto ci racconta di come un ricco mercante ateniese, Teopropide, dovendo allontanarsi per affari lasci il governo della casa al figlio Filolachete — l’assenza del padre rappresenta a quest’ultimo l’opportunità di godersela smodatamente anziché dimostrarsi probo amministratore: anzitutto prende in prestito un’ingente somma onde riscattare una schiava di cui è innamorato, poi sperpera denaro ancora più cospicuamente per organizzare un sontuoso festino a casa per i suoi amici. Va tutto liscio, finché il servus callidus Tranio riferisce gli sia giunta voce del ritorno inaspettato di Teopropide. Filolachete va in panico, poiché non sa cosa fare coi suoi ospiti, né come giustificare i suoi enormi sperperi; ma Tranio lo assicura andrà tutto bene: chiude Filolachete e gli ospiti in casa, incontra Teopropide in istrada e gli riferisce non può entrare poiché è stato scoperto la casa è infestata. Gli dà a credere un fantasma sia in piena notte apparso in sogno al figlio, onde al chiarore delle torce informarlo del suo antico assassinio, nella casa, per mano di un perfido ospite che lo ha poi derubato del suo oro; Tranio aggiunge anzi che il cadavere dell’assassinato è ancora celato in casa, tale da costituire pericolo per chiunque entri. Teopropide beve tutta la storia senza batter ciglio, e anzi dispera, non sapendo dove andrà a vivere. Ma giunge un creditore, il quale esige gli siano restituiti i soldi chiesti in prestito da Filolachete per liberare la schiava; Tranio spiega invece la somma esser stata richiesta al fine di acquistare la casa accanto a quella ormai inabitabile, ma quantunque Teopropide chieda al vicino, tale Simo, contezza, e costui neghi aver venduto a Filolachete, il pater familias non dà ancora segni di dubitare della fandonia del fantasma.

Una sepoltura impropria del morto o l’assenza di tomba erano considerate ragioni primarie per il ritorno di uno spirito dall’oltretomba.

Era a Roma antica credenza i fantasmi si manifestassero in modi prevedibili, e generalmente di notte. La storica Deborah Felton ha sottolineato come gli spettatori di Mostellaria dovessero trovare la storia del fantasma raffazzonata da Tranio particolarmente spassosa, proprio poiché si discostava vistosamente da come ritenevano si sarebbe invece presentata una tale apparizione: il fantasma dell’assassinato sarebbe sì apparso al chiarore di un lume di qualche sorta (era credenza i fantasmi fossero altrimenti invisibili), ma non in sogno — a meno che non si trattasse di un amico o amante; ovvero i fantasmi apparsi in sogno erano considerati di tipo completamente diverso rispetto agli spiriti senza requie vittime di morte ingiusta o i cui corpi non fossero stati sepolti secondo rito. Nella fretta di raffazzonare una scusa per il padron di casa, Tranio confonde due separate tipologie di narrazioni circa i fantasmi, e, ha osservato la Felton, questa confusione solleticava il divertimento del pubblico.

Ma una interessante diversione da questo paradigma ci è presentata nella storia della fanciulla Filinnione, come riportataci dallo storico Flegonte di Tralle (II sec. EC) e successivamente dal filosofo Prolco (V sec. EC): Filinnione è moglie di uno dei generali di Alessandro Magno, Cratero, e muore dopo sei mesi di matrimonio. Ella ritorna in vita e fa visita ogni notte in stanza al giovane Macate, ospite presso la di lei casa paterna; quando viene scoperta, spiega d’esser stata lasciata andare dall’oltretomba ma con uno specifico proposito — dopodiché muore una seconda volta. La storica Kelly E. Shannon, tra gli altri, ci fa notare quanta briga si sia preso Flegonte onde convalidare la sua storia e presentarcela come narrazione in prima persona in forma di lettera da un luogo (Anfipoli) e periodo (regno di Filippo II di Macedonia) specifici, il tutto mentre usa al contempo la cautela di non essere sufficientemente specifico da far sorgere dubbi in eventuali lettori familiari con la storia del posto. La Shannon scrive:

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A quanto ci si può ragionevolmente attendere un lettore credesse? La Letteratura latina antica è zeppa di creature, oggetti, e accadimenti strani e inspiegabili — dai centauri alle eruzioni vulcaniche, passando per le apparizioni di fantasmi. Fenomeni non necessariamente circoscritti al mondo del mito; resoconti naturalistici si focalizzavano sovente su aspetti bizzarri o impossibili, e un Plinio il Vecchio ci dà per vere cose un pubblico moderno stenterebbe a o si rifiuterebbe di prendere sul serio (1).

I fenomeni narrati cui fa riferimento la Shannon erano noti ai romani come mirabilia (“meraviglie”, dal lat. mirabilis), e includevano bestie parlanti, apparizioni di donne-spettro mostruosamente alte, visioni divine, fantasmi… Tra i racconti da mirabilia più famosi v’è quello di Plinio il Giovane (61 – 115 EC) che riporta del filosofo Atenodoro in visita ad Atene, dove apprende di una casa infestata temuta da tutti. Atenodoro affitta la casa, e la notte stessa è destato dallo sferragliare di catene e da un uomo nella sua stanza che gli fa cenno d’alzarsi e seguirlo; ma, seguitolo fino al giardino di casa, lo spettro improvvisamente scompare. L’indomani, Atenodoro ottiene che un magistrato cittadino ordini di far escavare il luogo, e vengono rinvenuti i resti di un uomo incatenato. Il corpo viene nuovamente sepolto con tutti i crismi, e la casa ne è liberata. Questa storia è tipica d’una infestazione, in cui uno spirito appare ed è in cerca di compensazione per un torto subìto. Una sepoltura impropria del morto o l’assenza di tomba erano considerate ragioni primarie per il ritorno di uno spirito dall’oltretomba — anche più impellenti del desiderio di vedere la propria morte vendicata, che si credeva motivasse altri spiriti.

L’eventualità del ritorno di un morto onde chiedere a un congiunto di veder la propria morte vendicata è descritta in un racconto di Apuleio, in cui un uomo di nome Trasillo s’innamora della moglie del suo amico Tlepolemo, e lo assassina durante una battuta di caccia. Lo spirito del marito appare a Carite in sogno, rivelandole l’assassinio ed esigendone vendetta. Facendo seguito a precedenti richieste di Trasillo di poterla corteggiare, declinate perché ancora in lutto, la donna accondiscende ora acché lui le faccia visita la notte stessa; gli offre del vino ‘corretto’ con del narcotizzante, e, una volta caduto in stato di torpore, lo acceca con la sua forcina — la morte affermata essere troppo lieve punizione per ciò che ha fatto l’uomo, ora condannato a vagare per l’esistenza senza poter vedere il mondo. Ella fa dunque ritorno alla tomba del marito e si toglie la vita con la di lui spada. Trasillo si fa rinchiudere nella sepoltura di Tlepolemo e si lascia morire di fame.

Queste, in nuce, le due modalità principali (ma non le uniche) secondo le quali era credenza si potessero i fantasmi manifestare: in sogno o in apparizione fisica, e generalmente in relazione alla loro morte. Un paradigma osservabile anche in altre culture.

I fantasmi in Cina e India

Durante la solennità dei fantasmi, è uso le persone lascino cibo e offerte in dono ai defunti, onde onorarli e placarli, affinché restino nel loro regno e non turbino i viventi.

Nella cultura cinese antica, lo spettro di un individuo annegato, morto senza il conforto d’altri, caduto in battaglia, o trapassato senza esser poi successivamente seppellito era credenza riapparisse fisicamente tra i vivi, visibile di notte e solo al chiarore d’una fiaccola. Lo spirito d’un antenato intento a riportare informazioni o dare moniti sarebbe invece piuttosto apparso in sogno. I fantasmi erano considerati reali dal filosofo cinese Mozi (470 – 391 AEC), ed è noto egli argomentò in favore della veridicità della tradizione secondo cui il fantasma del ministro Tu Po era tornato tra i vivi e aveva ucciso re Xuan di Zhou. A tal fine Mozi sostiene che, in presenza ad esempio di resoconti circa il funzionamento di un macchinario con cui l’ascoltatore non abbia familiarità o circa la lingua e il comportamento di popoli presso i quali non si sia mai recato, è d’uopo recepire ciò che si ascolta se esso sembra credibile e se il relatore sembra essere testimone attendibile; seguendo questa linea argomentativa, dunque, ciò che venisse raccontato circa fantasmi andrebbe accettato per vero a patto che il relatore sia già stato fonte attendibile in altri frangenti verificabili in prima persona. Pertanto, siccome sia i precedenti resoconti storici antichi che quelli a lui contemporanei contenevano riferimenti a fantasmi, entrambi sono conseguentemente da ritenersi realtà, non meno di quando storia consolidata e notizie odierne vengono assunte per vere — poco importa la verificabilità in prima persona del tal fantasma in sé.

La credenza dei cinesi nei fantasmi fu considerevolmente influenzata dal culto degli antenati, proprio della religione popolare, e dalla credenza che i trapassati seguitino ad esercitare potente influenza sulle vite delle persone. Come già riscontrato in altre culture, gli spiriti dei morti sono ritenuti poter essere di beneficio ai vivi, a patto non vi siano state infrazioni del rituale funebre e a men che al morto non sia stato concesso di ritornare sulla terra onde rimediare a un eventuale torto. Una solennità dei fantasmi, originariamente tenuta onde onorarli e placarli, seguita a essere tuttora celebrata nel quindicesimo giorno del settimo mese dell’anno. Noto come “Mese dei fantasmi”, questo periodo è ritenuto coincidere con il massimo assottigliamento del velo tra il regno dei vivi e quello dei morti, a quest’ultimi tali essendo dunque più semplice l’attraversamento — non dissimilmente dal concetto celtico di Samhain o dal Día de Muertos mesoamericano. Durante la solennità dei fantasmi, è uso le persone lascino cibo e offerte in dono ai defunti, onde onorarli e placarli, affinché restino nel loro regno e non turbino i viventi.

Ghost Festival, China
Ghost Festival, Cina
Mister Bijou (CC BY-NC-ND)

L’aldilà cinese era ritenuto constare di un viaggio in cui l’anima deve attraversare l’abisso attraverso un ponte sul quale viene anche giudicata. Se l’anima è ritenuta meritevole le è concesso procedere, soffermarsi in una sala onde voltarsi e scorgere la terra dei vivi un’ultima volta, e infine bere da una coppa il Mengpo, sorta di infuso nepente che induce l’oblio della vita passata. La cultura cinese è a questo punto discorde su cosa accada poi all’anima: secondo alcuni testi essa ascende al paradiso, secondo altri si reincarna. Se l’anima è giudicata non degna durante la traversata del ponte, essa ne sdrucciola, precipitando in un irreversibile inferno. In ogni caso, normalmente non ci si attendeva fosse all’anima concesso tornare nella terra dei vivi, ma se così avveniva (e se non era un antenato apparso in sogno a un congiunto per dargli monito) era certo qualche forma di potenza maligna fosse coinvolta.

Ciò è esemplificato nella storia di Ning Caicheng e Nie Xiaoqian, dal libro Racconti straordinari dello studio Liao (1680 EC) di Pu Songling. La narrazione, ritenuta assai precedente a questa formulazione di XVII secolo, segue Ning in visita ad un tempio dove gli appare il fantasma della fanciulla Nie — quest’ultima tenta sedurlo, ma Ning le resiste perché crede in una condotta virtuosa. L’indomani, due altri viaggiatori che erano venuti a soggiornare presso il tempio sono ritrovati morti, dissanguati attraverso dei fori nelle piante dei piedi. Nie giunge a rispettare la rettitudine di Ning nel resistere alle sue avances, e gli rivela esser morta, presso il tempio, appena diciottenne, e d’esser finita sotto il controllo di un demone mostruoso abitatore del luogo dov’è stata sepolta; il mostro le impone di sedurre i viaggiatori, dissanguarli, e nutrirlo del loro sangue. Ning riesuma i resti di Nie, e li conduce con sé a casa: là accanto li riseppellisce e versa libagioni sulla tomba in segno di rispetto e onore. Avendo performato il rito funerario appropriato, Ning fa per voltarsi e andarsene, quando sente la fanciulla chiamarlo: in riconoscenza alla di lui condotta virtuosa e ai suoi sforzi onde darle degna sepoltura, Nie è stata riportata in vita; i due si sposano, e, conclude la storia, vivono felici coi loro figli.

I racconti cinesi di fantasmi sono sovente latori di una morale, come nella summenzionata leggenda di Ning e Nie, e sanciscono ed enfatizzano comportamenti virtuosi e di gentilezza verso gli altri. Lo stesso Confucio credeva nell’efficacia delle storie di fantasmi poiché era d’opinione le lezioni apprese attraverso incontri sovrannaturali instillassero consone virtù nei viventi. Sempre a suo dire, ciò è vero anche nei casi d’incontro coi cosiddetti fantasmi affamati — spiriti o i cui congiunti avessero obliato i doveri di rispetto e commemorazione o di coloro i quali fossero stati uccisi da assassini ancora a piede libero. Era credenza ai fantasmi affamati fosse affidata dagli dèi una sorta di speciale dispensa onde tormentare i vivi fino a quando non avessero ricevuto giustizia; essi possono tormentare la mente degli individui o infestarne le dimore, sulla scorta del familiare poltergeist.

Ciò è valido anche per le credenze in India, dove alcuni fantasmi di trapassati erano considerati similmente ai fantasmi affamati. Nell’India antica e moderna i fantasmi erano noti come bhuta, ed era credenza apparissero sotto forma umana (seppure con l’abilità di mutarsi improvvisamente d’aspetto) ma coi piedi rivolti all’indietro: chiaro segno simboleggiante lo stato innaturale in cui versa lo spirito, un discostamento dalla normalità. I bhuta si materializzano quando l’individuo muore prima del suo tempo stabilito; non avendo potuto pienamente godere dell’esistenza propria, essi tornano sulla terra onde impossessarsi del corpo di un vivente. La possessione spiritica, ivi compresa quella in cui lo spettro rianima il suo proprio cadavere, era in India faccenda di considerevole preoccupazione, tanto che alcuni studiosi sostengono abbia dato origine alla pratica della cremazione — lo spirito di un corpo cremato non sarebbe potuto tornare a rianimarlo, e l’accensione di incensi, di concerto con l’uso di amuleti e preghiere, avrebbe protetto i vivi a loro volta dalle possessioni spiritiche.

Racconti di dimore, e persino intere città e regioni permanentemente infestate sono sopravvissuti per secoli.

Poiché sono morti prima del tempo loro destinato, questi spiriti ci vengono presentati come decisamente infelici e sovente irati. Quando accadeva si manifestassero fisicamente, essi erano ritenuti cagione di innumerevoli sciagure, ma laddove, come in altre culture, fossero apparsi in sogno, erano invece creduti benevoli e anzi ricondotti a qualcuno di conoscenza del sognatore se non proprio un congiunto trapassato. Un bhuto particolarmente insidioso era noto come churail — spirito di donna morta di parto e creduto stare in agguato agli incroci e fingere di voler farsi amici i passanti: nel caso di una donna il churail tenta rapirne i figli o impossessarsi del suo corpo, nel caso d’un uomo, di sedurlo e dunque ucciderlo. Neanche i bhuta (né i churail) possano sottrarsi al ciclo di reincarnazione, dove comunque fanno ritorno al termine dell’ulteriore tempo loro concesso sulla terra; e quantunque la credenza indiana in un aldilà metempsicotico consti di un giudizio dell’anima del trapassato per gli atti commessi durante il tempo corporeo, e lo spostamento, nella successiva incarnazione, verso l’alto o il basso della gerarchia spirituale è conseguentemente decretato, sembrerebbe tuttavia che non a tutte le anime sia permesso muoversi, poiché racconti di dimore, e persino intere città e regioni permanentemente infestate sono sopravvissuti per secoli.

Il più famoso di questi siti è Bangarh Fort, nel Rajasthan — una città abbandonata ritenuta essere abitata da fantasmi. La città fu costruita sotto l’impero Moghul nel 1573 EC, e, secondo la leggenda, poté prosperare fino a che non venne maledetta da un eremita ritiratosi nelle sue prossimità. Secondo una versione della storia, il saggio eremita aveva inizialmente benedetto la costruzione della città, ma a condizione che nessun suo edificio si innalzasse tanto alto da fare ombra al suo eremo in collina e privarlo del sole — richiesta inizialmente rispettata dagli originari costruttori della città ma successivamente obliata e disattesa nelle aggiunte al palazzo di città che principiarono a far ombra alla dimora dell’eremita. Egli dunque maledice la città e i suoi abitanti per la loro tracotanza e, in una singola notte, tutti i piani più alti degli edifici crollano — i sopravvissuti abbandonano Bangarh Fort ed erigono una nuova Bangarh non distante.

Bhangarh Fort Ruins, Rajasthan
Rovine del forte di Bhangarh, Rajasthan
Parth Joshi (CC BY-NC-SA)

Un’ulteriore versione della storia coinvolge le vicissitudini dell’avvenente principessa Ratnavi e del malefico stregone Baba Balnath — quest’ultimo, di lei innamorato ma consapevole non avrebbe mai potuto corrispondere i suoi sentimenti, prepara un filtro d’amore, e, spacciandolo per profumo, fa sì venga a lei proposto, un giorno al mercato. Ella sospetta la bottiglietta contenere ben altro che un profumo, e la versa su d’un sasso; a cagione dei poteri magici della pozione, esso viene per attrazione sollevato e slanciato verso lo stregone, schiantandoglisi addosso. In punto di morte, Baba Balnath maledice Ratnavi e l’intera città, giurando più nessuno avrebbe dimorato tra le sue mura. Come nell’altra versione della storia, la città viene abbandonata in una sola notte a seguito di una catastrofe, e, come da maledizione, mai più popolata dai vivi. I morti si ritiene tuttavia risiedano tuttora a Bangarh Fort, e udire voci spettrali, risate provenire dal nulla circostante l’antica piscina, passi, o scorgere luci muoversi nella città se non proprio lo spirito della principessa, sono particolari appartenenti ai resoconti di visitatori sino ai giorni nostri.

I fantasmi mesoamericani

Nel sistema di credenze maya, i fantasmi come quelli che si dice infestassero Bangarh erano intollerabili alla vista e dovevano essere tenuti a bada attraverso incantesimi e amuleti o respinti negli inferi per intercessione di uno sciamano. Quantunque paragonabile a quella mesopotamica, con cui ne condivideva l’accezione di luogo oscuro e terribile, l’idea maya dell’oltretomba portava questa visione anche oltre: lungo il percorso attraverso gli inferi (noti come Xibalba o Metnal) sono in agguato numerosi Signori dei Morti pronti ad assalire le anime dei trapassati tendenti verso il paradiso. Lo spirito abbandona il corpo morente, ed è condotto attraverso un’ampia distesa d’acque da un cane spirito-guida il quale gli è anche d’aiuto nel superare gli agguati tesi dai Signori di Xibalba — meta auspicata è l’Albero della vita, la cui scalata conduce al paradiso. Poiché la discesa negli inferi era intesa essere viaggio senza ritorno, similmente alle altre culture summenzionate non era consuetudinario attendersi i fantasmi facessero ritorno al reame terreno.

Come per i maya, l’aldilà è luogo tenebroso e di non ritorno.

Quelli che tornavano, pertanto, erano ad infrazione del naturale ordine delle cose — ad eccezione di quelli che, come nelle altre culture, apparissero in sogno e fossero riconoscibili come amici o familiari. Eppure non è sempre questo il caso. I maya intesero meglio credere che i morti privi di requie tornassero piuttosto sottoforma di piante benefiche o da evitare. La migliore istanziazione di questa credenza ci è fornita nella Leggenda della Xtabay, la quale narra di due bellissime donne: Xkeban e Utz-Colel. La prima è maltrattata e discriminata dai cittadini di rango poiché ha intrattenuto illegali relazioni sessuali extraconiugali, ma è dagli altri di ceto più basso amata per il suo animo gentile e la buona disposizione con tutti; la seconda è tenuta in alta considerazione dalle classi alte perché di buona famiglia e ligia alle osservanze sociali, ma è di cuor duro, crudele e interessata esclusivamente a sé stessa.

Una strana e inebriante fragranza prende un giorno a pervadere il villaggio, e le povere genti che ne seguono la traccia sino alla fonte rinvengono Xkeban morta nella sua capanna pe cause sconosciute — la fragranza gradevole è emanata dal suo corpo. Essi la seppelliscono, e l’indomani graziosi fori di campo ne coprono l’intera tomba, olezzanti anch’essi del profumo del giorno precedente. Poco tempo dopo anche Utz-Colel muore, ma dal suo corpo s’erge un terribile tanfo. Gli ottimati del villaggio la seppelliscono con grande pompa come donna nobile e pia, e ne adornano la tomba piantando fiori — ma l’indomani questi appassiscono. Dalla sua tomba spunta il fiore non profumato noto come Tzacam, mentre da quella di Xkeban sboccia il fiore Xtabentun dalla dolce fragranza. Le anime delle due donne infondono i rispettivi fiori.

Quanto Utz-Colel si ravvisa esser fiore spinoso e privo di profumo, ingelosisce di Xkeban, il cui peccato d’amore carnale, ritiene, l’ha invece in qualche modo dotata di tanta prosperità. Ella entra dunque in combutta gli spiriti oscuri dello Xibalba, affinché ritorni in vita, e, avendo un rapporto sessuale con chiunque intenda, sia benedetta come Xkeban. Ciò che tuttavia non comprende è che l’atto di quella era motivato dall’amore, mentre il suo lo è dall’ambizione. Le viene dunque sì concesso di tornare alla vita attraverso lo Xtabay, il fiore che spunta dal cactus e che talvolta assume forma umana onde attendere i passanti agli incroci; ma se un uomo le mostra interesse, ella ha da sedurlo e ucciderlo, se è una donna invece a passare, ha da punirla affliggendone la serenità mentale.

Tezcatlipoca Turquoise Skull
Teschio turchese Tezcatlipoca
Trustees of the British Museum (Copyright)

Gli aztechi credevano in una entità simile, anche se piuttosto paragonabile ai churail indiani: noto come Cihuateteo, è il fantasma di una donna morta di parto. Anche queste entità era credenza infestassero gli incroci, ma ignorano i viaggiatori maschi e attendono piuttosto le donne con prole al seguito onde stordirle e rapirne i figli. Erano anche credute capaci di intrufolarsi nottetempo nelle case e trarne via i bambini — tanto che amuleti e portafortuna erano appesi agli stipiti di porte e finestre onde tenerle lontane. Nel sistema di credenze azteco, i fantasmi in genere erano ritenuti ospiti infausti, latori di cattive notizie e presagi di sventura. Come per i maya, l’aldilà è luogo tenebroso e di non ritorno, e il riemergere di uno spirito era dunque chiaro segno o qualcosa fosse accaduto in infrazione all’ordine naturale o qualche male sarebbe presto accaduto.

Mictlantecuhtli, God of Death
Mictlantecuhtli, Dio della morte
Dennis Jarvis (CC BY-SA)

Per gli aztechi, così come per l’altra cultura precolombiana dei taraschi, i cani erano capaci di vedere i fantasmi e fornire protezione da essi — tanto che fu consuetudine d’ambo i gruppi di inumare i propri morti insieme a cani che era altresì credenza ne servissero, guidassero nell’aldilà, e proteggessero lo spirito dai fantasmi maligni. Sappiamo in particolare i taraschi esser stati tanto angosciati dalla paura dei fantasmi da formulare la nozione di spirito-cane. I fantasmi erano ivi pure concepiti essere le ombre di coloro i quali non avessero ricevuto degna sepoltura, fossero periti soli durante una battuta di caccia senza che il corpo ne venisse più rinvenuto, o fossero annegati — e tornavano nel mondo ad affliggere i vivi finché non ne fosse ritrovato il cadavere e sepolto secondo cerimonia. Nel problematico caso in cui non si fosse riusciti a rinvenire i resti mortali, era appunto credenza dei taraschi che uno spirito-cane potesse, così conseguentemente guidando l’anima nell’aldilà affinché non tormentasse più i vivi.

Anziché essere compianti luttuosamente, nelle culture mesoamericane i morti erano celebrati — temperie culturale fondativa dell’evento oggi noto come Día de los Muertos. In questa occasione, la comunità si riunisce onde commemorare coloro che sono andati oltre e per celebrarne la vita; originariamente gli aztechi solevano rendere onore alla dea dell’oltretomba, Mictecacihuatl, ai bambini defunti, e poi agli adulti avviatisi oltre. Il festival soleva tenersi durante il raccolto del mais (fine luglio – agosto), ma dopo la conquista spagnola fu posposto in novembre onde coincidere con la commemorazione cattolica di tutti i santi.

I fantasmi celtici

In America centrale, questo spostamento di data per la commemorazione dei defunti fu attuato conformemente la logica cattolica di “cristianizzazione” delle festività pagane precedentemente esistenti. Una simile celebrazione osservata in Europa settentrionale (Irlanda, Scozia, Galles) era nota come Samhain, e nella locale cultura pagana la quale concepiva l’anno non linearmente ma ciclico e in moto come una ruota, essa demarcava la fine di un ciclo e l’inizio del successivo — un momento in cui era altresì credenza che il velo a separazione tra vivi e morti si assottigliasse, e i trapassati potessero di nuovo camminare tra i viventi. Ciò decorreva tra fine ottobre – inizio novembre; tradizionalmente aveva inizio al tramonto del 31 ottobre onde concludersi il 2 novembre, ma si sono osservate attestazioni delle celebrazioni anche dalla settimana precedente il 31 ottobre, e in quella successiva il 2 novembre. Quantunque opinioni contemporanee circoscritte alla Rete e a qualche programma televisivo statunitense affermino Samhain sarebbe stato il dio dei morti cui i celti officiavano sacrifici di 31 ottobre, esse sono errate: nessuna divinità celtica era nota col nome di “Sam Hain”, e il termine significa semplicemente “fine estate” in Irlandese antico.

Samhain era un’occasione importante altresì per la macellazione del bestiame — tradizione ritenuta a fondamento etimologico del termine in Inglese per falò, “bonfire”: bone (osso) + fire (fuoco).

Era credenza i defunti potessero circolare liberamente per il mondo durante questo periodo, e venivano preparati degli appositi pasti perché questi, amici e congiunti, potessero cibarsene durante la loro manifestazione terrena. Samhain era un’occasione importante altresì per l’immagazzinamento del raccolto, la macellazione del bestiame, l’essiccazione e salagione della carne per stiparla durante l’inverno, e la combustione delle ossa — tradizione ritenuta a fondamento etimologico del termine in Inglese per falò, “bonfire”: bone (osso) + fire (fuoco). Un lato più oscuro del Samhain era tuttavia costituito dalla nozione di spiriti irrequieti (come per i fantasmi affamati cinesi) anch’essi lasciati liberi di girovagare — onde la pratica rituale assunta dagli osservanti di mascherarsi per non essere riconosciuti da quelli che intendessero il loro male. L’usanza sarebbe poi col tempo evoluta nell’odierna festività di Halloween. L’Impero romano ebbe già conquistata la gran parte delle regioni dei celti (I sec. EC), quando il Cristianesimo divenne religione ufficiale dell’Impero nel IV sec. EC e le Chiese presero ad incorporare festività pagane nei propri calendari. Data la popolarità del Samhain, esso fu incorporato nel rito come Allhallows o Hallowmas (Tutti i santi, messa/solennità dei santi), per poi coincidere con la Commemorazione dei defunti e il Giorno di tutti i santi quando divenne di consuetudine pregare per l’espiazione delle anime purganti. Come per il Samhain in Europa, così è stato per il Día de los Muertos in Messico: le festività pagane furono fatte coincidere con osservanze cristiane.

Conclusioni

Nonostante il persistere della credenza per cui i morti possano manifestarsi fisicamente nel mondo in occasione di giorni come quello di Commemorazione dei defunti, questa congerie culturale ha seguitato a mutarsi con l’affermarsi in popolarità della concezione cristiana dell’aldilà — e i fantasmi vennero pertanto accostati a demoni e al diavolo. La stessa Bibbia menziona fantasmi in passaggi come Matteo 14:25-27, Marco 6:48-50, e Luca 24:37-39; ma tra i più famosi passi concernenti fantasmi v’è senz’altro 1 Samuele 28:7-20, in cui re Saul si reca presso la strega di Endor onde chiederle di evocare il fantasma di Samuele, già suo consigliere e profeta del Dio; ma Saul decade dalle grazie divine proprio per aver preferito consultare uno spirito anziché affidare il suo futuro a Dio. I fantasmi, e specialmente la loro evocazione, presero a esser visti in una luce infausta con il crescere di numero dei seguaci del Cristianesimo. E lo stesso passo in Marco 6 venne interpretato quale rappresentazione negativa dei fantasmi, poiché proprio un fantasma i discepoli credono Gesù essere, quando lo vedono camminare sulle acque — solo dèi e altri esseri partecipanti al divino era però opinione potessero farlo, non i fantasmi, e dunque si convenne che l’errore di scambiare Gesù per un fantasma sia palesamento della durezza di cuore dei discepoli nel recepire il messaggio di salvezza. Lo studioso Jason Robert ha rimarcato come l’autore marciàno dovesse essere a conoscenza di come i suoi lettori avrebbero concepito il simbolismo del fantasma:

Dèi e uomini divini camminano sulle acque, non i fantasmi. Ma quando i discepoli vedono Gesù camminare sulle acque, essi credono all’impossibile piuttosto che all’ovvio. “Essi, vedendolo camminare sul mare, pensarono: «È un fantasma!», e si misero a gridare” — l’aggiunta di questa assurdità da parte di Marco enfatizza drammaticamente il fraintendimento dei discepoli della messianicità di Gesù (358).

L’autore marciàno sottolinea continuamente come i discepoli non comprendano chi Gesù sia né quale la sua missione. Il suo uso del tropo del fantasma all’inizio del vangelo avrebbe immediatamente chiarito questo punto ad un pubblico antico, conscio che un fantasma non possa camminare su quell’acqua spesso allora utilizzata onde scacciare gli spiriti. La Prima Lettera di Giovanni, in 4:1, asserisce occorra mettere alla prova tutti gli spiriti, onde sincerarsi vengano da Dio, e non credere essi appaiano sempre per ciò che sono. Questo passaggio, affiancato alle credenze circostanziate in Marco, 1 Samuele, e altrove, incoraggiò anche ulteriormente l’aura nefasta già precedentemente attribuita ai fantasmi; quantunque essi fossero sempre stati visti come innaturali e indesiderati, vennero ora afferiti al demoniaco e concepiti come agenti del demonio. Si incoraggiò anzi a rifiutare l’esistenza dei fantasmi, poiché in morte l’anima sarebbe traslata in paradiso, in purgatorio o all’inferno, senza poter tornare sulla terra; tanto che chi avesse visto un fantasma aveva da concludere si trattasse di un tiro del diavolo onde indurre nell’incredulità dell’ordine divino e dunque all’inferno. Questa mentalità inerente i fantasmi è posta in utilizzo nell’Amleto di Shakespeare, quando il principe Amleto dubita il fantasma visto sia effettivamente suo padre ritornato dai morti: “Lo spettro che ho veduto / potrebbe essere il diavolo: egli ha possa / d’assumere sembianze seducenti / e con le mie tramando debolezza / e malinconia — lui ch’è sì potente / di su’ fragili umori — di me beffe / si fa onde dannarmi” (II, ii, 610-615). Questa concezione dei fantasmi alterò completamente quella più antica secondo la quale essi non erano che anime di trapassati; e, anzi, poiché si trattava ora di manifestazioni diaboliche, il credere in esse fu fatto oggetto di dissuasione.

Con il trascorrere del tempo, una crescente spinta secolarizzatrice e verso una visione del mondo “scientifica” completò, per così dire, il lavoro della chiesa, relegando i fantasmi nella sfera della superstizione e della fantasia. Quantunque a giudicare dal numero di siti in Rete e di prodotti editoriali votati all’argomento numerosi oggigiorno mostrano interesse verso i fantasmi, generalmente l’effettiva credenza nella loro esistenza non è culturalmente incoraggiata — l’esatto inverso della concezione che dei fantasmi si aveva nel mondo antico. Il giornalista John Keel, investigatore di cosiddetti eventi paranormali, e prevalentemente noto per il suo libro The Mothman Prophecies, ebbe a scrivere che non esistono cose come il “paranormale” o il “sovrannaturale”; citando innumerevoli inusuali eventi riportatici attraverso la storia, egli osservò come ciò che gli individui odierni sogliono prevalentemente chiamare “paranormale” o “sovrannaturale” altro non è che un aspetto naturale della vita terrestre. Il mondo degli spiriti, dei fantasmi, e delle anime manifestantesi da un aldilà, insomma, potrebbe essere una realtà oggi tanto quanto lo era per gli individui del mondo antico; e la ragione per cui non è più comunemente accettato i fantasmi facciano consuetudinaria parte della vita è semplicemente perché un intero mondo della mente che a quel modo funziona non è più riconosciuto come valido: con il Cristianesimo è sorto un nuovo paradigma di funzionamento e comprensione del mondo il quale, ancor più con l’accettazione d’una Weltanschauung secolarizzata, ha distanziato la nozione dei fantasmi dalla sfera esistenziale tanto da privarli infine della loro potenza effettiva e ridurli a topoi di racconti e leggende.

Bibliografia

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Info traduttore

Alfonso Vincenzo Mauro
Interprete e traduttore a Vietri sul Mare (SA). Condirettore del festival di cultura 'La Congrega Letteraria', a Vietri sul Mare. Corso di laurea in Storia, Universita' degli Studi di Napoli 'Federico II'.

Info autore

Joshua J. Mark
Scrittore freelance ed ex Professore part-time di Filosofia presso il Marist College (New York), Joshua J. Mark ha vissuto in Grecia ed in Germania, ed ha viaggiato in Egitto. Ha insegnato storia, scrittura, letteratura e filosofia all'Università.

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Mark, J. J. (2014, ottobre 30). I fantasmi nel mondo antico [Ghosts in the Ancient World]. (A. V. Mauro, Traduttore). World History Encyclopedia. Estratto da https://www.worldhistory.org/trans/it/1-13359/i-fantasmi-nel-mondo-antico/

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Mark, Joshua J.. "I fantasmi nel mondo antico." Tradotto da Alfonso Vincenzo Mauro. World History Encyclopedia. Modificato il ottobre 30, 2014. https://www.worldhistory.org/trans/it/1-13359/i-fantasmi-nel-mondo-antico/.

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Mark, Joshua J.. "I fantasmi nel mondo antico." Tradotto da Alfonso Vincenzo Mauro. World History Encyclopedia. World History Encyclopedia, 30 ott 2014. Web. 19 apr 2024.